Non possiamo continuare a crescere e produrre come se le risorse fossero illimitate, è necessario ridimensionare i nostri consumi in funzione della capacità del pianeta di rigenerare le risorse usate.

Fino alla seconda guerra mondiale la domanda umana di risorse è stata insignificante in relazione al patrimonio globale. Dopo in soli sei decenni si sono consumate più risorse che nell’intero arco della storia prima d’allora.

La “sovracrescita” economica deve confrontarsi con la finitezza della biosfera, che già oggi supera ampiamente la portata del pianeta. Un numero considerevole di indici sono stati sviluppati allo scopo di valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. Ad esempio il concetto di impronta ecologica introdotto nel 1996 da Mathis Wackernagel e William Rees (Wackernagel et al., 1996) e che a partire dal 1999 il WWF aggiorna periodicamente nel suo Living Planet Report evidenzia un’insostenibilità sia dal punto di vista della capacità di rigenerazione della biosfera, sia dal punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura. Secondo il Living Planet Report 2012, nel 2008 la biocapacità totale della Terra ammonta a 1.8 gha procapite (in cui gha, global hectare, è la biocapacità di un ettaro di superficie con la produttività media mondiale), mentre l’impronta ecologica dell’umanità è a 2.7 gha pro-capite; la terra impiega quindi circa un anno e mezzo per rigenerare completamente le risorse rinnovabili che l’umanità utilizza in un solo anno (vedi anche Global Footprint Network).

Inoltre, il dato medio dell’impronta nasconde grandi disparità, se tutti vivessero come gli italiani, avremmo bisogno di 2,5 pianeti Terra per sostenerci, se vivessero come lo statunitense medio sarebbero necessari 4 pianeti, mentre se tutta l’umanità vivesse come l’indonesiano medio, per rigenerare la domanda antropica annua di risorse verrebbero utilizzati solo due terzi della biocapacità del pianeta.

Altro esempio che rivela il trend consistente di sovraconsumo è il sistema di allevamento intensivo europeo che richiede in “prestito” da altri paesi una superficie equivalente a sette volte quella del nostro continente per produrre l’alimentazione necessaria agli animali allevati secondo questo metodo industriale (V. Shiva, “Vacche sacre e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali”, Derive Approdi, Roma 2001).

Potrebbero essere riportati altri indici ed altri esempi che mettono in luce la gravità del livello di sfruttamento delle risorse al quale siamo arrivati, ma è ancor più importante sottolineare che questa eccessiva richiesta quantitativa vive di una spinta inerziale che se non fermata, incorrerà nel paradosso “dell’alga verde”: “Un bel giorno, incoraggiata dall’uso massiccio di concimi chimici da parte degli agricoltori circostanti, una piccola alga verde comincia a prosperare in un grandissimo stagno. Anche se la sua diffusione annua è rapida, di una progressione geometrica con fattore 2, nessuno se ne preoccupa, fino al momento in cui l’alga occupa metà della superficie dello stagno e rischia di provocare un’eutrofizzazione. Ma, il problema è che, pur avendo impiegato alcuni decenni per arrivare a quello stadio, basterà un solo anno per provocare la morte irrimediabile dell’ecosistema lacustre. Siamo arrivati al punto in cui l’alga ha colonizzato metà del nostro stagno” (Latouche, 2006).